La realtà dell’emarginazione dei “folli” e della negazione sociale della patologia psichica mostra sempre nuovi volti.
Nel romanzo “La prima verità” di Simona Vinci (premio Campiello 2016) viene narrata una di queste grandi, violente negazioni: l’esistenza di un lager psichiatrico in un’isola greca – Leros – dal dopoguerra per alcuni decenni fino a pochi anni fa.
Una larga parte dell’isola – con i suoi edifici militari di epoca fascista – veniva usata come luogo di confino (ma anche di abbandono, di punizione, di ostracismo, di violenza e distruzione della dignità) per malati psichiatrici e dissidenti politici.
L’autrice scopre questa terribile storia per caso, vedendo una mostra fotografica e lasciandosi colpire dagli sguardi che raccontano orrori.
Sulla base di una storia vera, l’esistenza di Leros e dell’ospedale psichiatrico dell’isola – un lager dove vengono confinati reietti – si snoda dunque l’invenzione del romanzo, che narra su più piani temporali le vicende dei personaggi.
Le storie si intrecciano e spaziano dalle vite dei pazienti (donne vittime di violenza e ragazzini incompresi, epilettici o poeti dissidenti…) a quelle degli infermieri e dei volontari venuti da fuori. La voce narrante è quella di una giovane volontaria che scopre segreti, ricostruisce storie e si imbatte in sentimenti inconfessabili, in mezzo ai corpi inermi, maltrattati e sofferenti dei “matti”.
Anche lei, Angela – la voce narrante- viene da un paese dove c’è un istituto psichiatrico e da una famiglia dove alberga la sofferenza psichica.
Così, con questi diversi piani, l’autrice esplora il mondo del dolore psichico, della paura di riconoscerlo e dell’esclusione e lo fa con un potente linguaggio visivo. La descrizione dei luoghi coincide con il dolore, la rabbia, l’orrore e la tristezza. La scrittura scarna lascia i sentimenti dietro fatti e luoghi. Nell’insieme un notevole tributo alla memoria e all’inclusione sociale, con un felice paragone con gli esclusi di oggi, cioè gli immigrati che arrivano nei barconi e talvolta fanno tappa proprio a Leros.
La sintesi asciutta della scrittura a volte risulta in disequilibrio con l’espressione dei sentimenti ma questo può appartenere al registro, denunciato e messo a nudo, della negazione.
Leggere questo romanzo è un impatto, duro ma necessario, con un pezzo di verità storica ed umana.